di Maria Teresa Caprile e Stefania Notarnicola
La ricerca di terreno si è svolta tra maggio 2000 e febbraio 2001, e ha
coperto le località comprese nei comuni di Crocefieschi, Montoggio,
Valbrevenna e Vobbia.
Sono state raccolte 360 schede relative a prodotti e piatti, e 142 di cultivar
ortofrutticole, per un totale di 502 record.
Come già nella precedente tranche sul Ponente Genovese, le
curatrici non appartengono alla locale rete di relazioni, per cui è
stato necessario introdursi nell'ambiente con una serie di passaggi a volte
difficoltosi, e misurarsi con le inevitabili asimmetrie di rapporto tra
intervistatore e intervistato che naturalmente si verificano in questi casi.
Spesso sono stati ascoltati testimoni che, grazie all'attività svolta
(produttori o ristoratori), si sono dimostrati più aperti e disponibili
(quando non addirittura entusiasti) nell' offrire la loro collaborazione;
più problematico è stato coinvolgere informatori "privati",
anziani o pensionati, estranei al circuito produttivo, che si sono rivelati non
tanto diffidenti quanto scettici, disillusi circa la possibilità che "si
possa fare davvero qualcosa per i nostri monti" o non disponibili a rendere la
loro testimonianza (e a ricordare una storia, un passato, spesso fatto di
miseria: "C'era la fame, sa, e che fame!"). A volte è stata necessario
ricorrere ad un "mediatore" locale, nella parte di presenza conosciuta e
rassicurante, per superare l'imbarazzo e la perplessità di alcuni
testimoni.
La ricerca di terreno ha coinvolto un numero complessivo di 40
informatori.
Questi, come già detto precedentemente, sono stati scelti considerando
la loro rappresentatività rispetto al territorio di appartenenza.
Nella tabella seguente si riporta la distribuzione (frequenza) degli
intervistati, in base al loro domicilio.
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La ricerca ha fatto ricorso a interlocutori capaci di fornire informazioni anche
sulle pratiche meno diffuse od ormai scomparse nell'area indagata:
solo otto testimoni hanno infatti meno di quarant'anni.
Osservando la tabella, che suddivide in classi di età i testimoni, si
osserva che la classe più rappresentata è quella dei soggetti
tra i 71 e i 62 anni (12 soggetti), seguita da quella degli intervistati con
età tra i 72 e gli 82 anni (8 soggetti).
E' da rilevare che le classi intermedie sono comunque rappresentate da un
sufficiente numero di soggetti, interessanti per la loro scelta professionale
(nel campo delle coltivazioni biologiche, dell'agriturismo e della
ristorazione) e per la loro appartenenza alla realtà locale, in quanto
residenti e soprattutto attivatori di risorse locali.
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Infine, il gruppo di testimoni utilizzato nello studio, rappresenta, in modo equilibrato, sia il mondo femminile che quello maschile.
Viene riportata in tabella la frequenza dei testimoni distinti per sesso.
Intervistati
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Frequenza
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Uomini
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21
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Donne
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19
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Totale
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40
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Per la categoria prodotto/piatto sono stati registrati un totale di 360
records.
In tabella si riporta la distribuzione in classi dei prodotti/piatti, con la
relativa frequenza.
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Le classi di prodotti/piatti che presentano la maggiore frequenza sono le carni
e frattaglie (58 ricette), i condimenti (46) seguiti dai dolci (45) e dalla
pasta fresca (39), minestre in brodo (22), uova e frittura (18), torte salate
(14).
Altre classi come i latticini (formaggetta di latte vaccino e di latte misto
vaccino e caprino) gli insaccati (mostardella e testa in cassetta), il vino e i
fermentati (vino e sidro) e gli sciroppi hanno frequenze minori in quanto ormai
rientrano in quelle categorie di prodotti la cui pratica si è quasi estinta.
Per la descrizione dettagliata si rimanda al database.
Le cultivar registrate sono in totale 142 e così suddivise nei seguenti gruppi
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Le specie più rappresentate sono quelle arboree: stupisce la
varietà di cultivar presenti sul territorio investigato.
Si evidenzia che la Valle Scrivia in passato basava la sua attività
agricola sulla coltivazione frutticola ed in particolare quella delle mele.
"Tempo di mele, tempo di castagne, tempo di carbone". Questa frase detta da Ugo
Rebosio (Crosi, Valbrevenna) per affermare i periodi in cui maggiormente venivano
utilizzati i sentieri, evidenzia anche le principali attività economiche
che caratterizzavano la valle: la produzione di mele, di castagne e di
carbone.
A testimonianza di ciò, nell'ambito dello studio per il Conservatorio
delle Cucine Mediterranee, si sono individuate molte delle varietà che
un tempo caratterizzavano il paesaggio agrario.
La regina delle mele è la Teresa, la renetta per eccellenza, seguita
dalla Cabelotta, dalla Battagliona, dalla Carla e dalla mela di Milano.
Si riporta in modo sintetico la descrizione delle mele individuate sul
territorio indagato.
Nome cultivar |
Descrizione
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Mela
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Teresa
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Mela
appiattita, di colore giallino pallido e mascherina rosso aranciato sul lato in
cui è esposta al sole, con leggera rugginosità. Dolce ed
aromatica, è la renetta per eccellenza.
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Carla
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Mela
di forma rotonteggiante (tronco conica corta), di medie dimensioni e di colore
dominante giallo -verde con maschera rossa.
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di
Milan
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Dimensioni
medio grosse, hanno le maschere rosse. Dolce succosa, si vendevano per il
consumo fresco.
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Cannellinn-a
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dolci,
piccole forma allungata, Di colore giallo pallido. Polpa color crema, tenera e
di polpa medio-fine, farinosa.
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Battagliunn-a
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mela
di grandi dimensioni. Maturano a Pasqua (tardi). La polpa è di colore
gialla, consistenza tenera. Succose e farinose come le banane. Epicarpo di
colore verde. Si facevano maturare sulla paglia. Si raccoglievano dalla pianta
dopo i santi e si ponevano sulla paglia in soffitta a maturare. Erano le ultime
mele che si raccoglievano. Sono leggermente allungate.
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Cabelotta
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sono
di forma rotonda, con maschera rossa, fanno l'olio, diventano unte. Dolci e non
farinose, succose
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Gianchetta
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bianche,
rotonde, non tanto grosse ma gustose
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Garbuçinn-a
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mela
presente in Valbrevenna, utilizzata per il "vin de meia"
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Pomella
|
di
media grandezza, dure e sugose e dolci: rosse e verdi.
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Selvatica
di Casella
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abbastanza
grosse, buone e presenti da fine aprile a giugno (fine maggio), utilizzate per
il "vin de meia"
| |
Setronina
|
rosse
da un lato, dolci e di polpa gialla
|
La produzione di mele era indirizzata sia per il consumo fresco, raggiungendo
il mercato di Genova e del vicino Piemonte, sia per la trasformazione. Le "mele
da sacco" quelle cioè di seconda scelta, si vendevano per essere
trasformate in "alcool" (forse sidro) da una ditta che si trovava a S.
Giulietta in Piemonte (nei pressi di Tortona). Comunque con le mele di seconda
scelta gli stessi agricoltori erano soliti preparare surrogati del vino, il
"vin de meia" (sidro) e la "vinetta" (con mele e raspi di uva).
Inoltre dal sidro, produceva un ottimo aceto di mele' che a detta di Maria
Luisa di Serrato era sicuramente più buono del "vin de meia".
Tra le pere spiccano quelle "da inverno", così chiamate perché
erano tra le più tardive, e quelle "da estate". Alcuni usavano anche le
pere per fare il sidro ed in particolare quelle che chiamano "negrè"
(diventano nere nella polpa, quando mature).
Per la descrizione si rimanda al data base.
Pera
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Ciappecuglion
|
di
S. Sebastiano
| |
Damma
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Da
estate
| |
Da
Inverno
| |
dell'Armella
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Spadona,
Spadunn-a
| |
du
Bertumè
| |
di
S.Anna
| |
Russetta
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Negrè
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Kaiser
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Paradiso
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Durango
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Le Arselline e le Franchine sono le prugne maggiormente rappresentative.
Prugna
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Arselinn-a
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Franchin
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Erbenn-a
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E' inoltre da menzionare un vitigno che localmente viene chiamato "nebbio da
u peigullo rosso", che era presente sui versanti meglio esposti del
territorio, Montoggio e Clavarezza. Purtroppo, viste le condizioni, questo
vitigno aveva difficoltà a maturare, non riuscendo a raggiungere una
soddisfacente percentuale di zuccheri. Per tale motivo il vino rimaneva aspro e
si conservava con difficoltà. Alcuni effettuavano un uvaggio con mosto
proveniente dal Piemonte proprio con lo scopo di aumentare il grado
zuccherino.
Da un'analisi approssimativa il vitigno definito localmente "nebbio", potrebbe
essere un dolcetto che si è selezionato in zona.
L'età media degli operatori agricoli si aggira sui sessant'anni (vedi
tabella dei testimoni). Chi svolge tuttora attività agricola, lo fa a
tempo parziale, e soprattutto per passione.
Comunque attualmente, alcune realtà produttive agricole, nell'ambito
dell'agriturismo, dell'agricoltura biologica applicata alla coltivazione di
varietà locali e il loro recupero anche dal punto di vista economico,
stanno emergendo ad opera di giovani imprenditori.
La ricerca ha posto in evidenza una "involuzione in atto" per quanto riguarda
l'offerta nel campo della ristorazione: le trattorie e le osterie, anche quelle
che sono state condotte dalla stessa famiglia nel corso di più
generazioni, spesso chiudono, a volte perché si interrompe il
"passamano" tra genitori e figli (che preferiscono un altro mestiere, magari in
città), altre volte per obiettiva impossibilità di proseguire
l'attività (scarsità di clientela nei mesi invernali, preferenza
accordata dagli avventori a ristoranti del fondovalle, più facilmente
raggiungibili, spese - e tasse - che superano le entrate, anzianità del
conduttore).
C'è anche il caso di chi mantiene l'attività, ma la
sposta in un altro comune, con minori costi di approvvigionamento e maggior
vicinanza alla città (quindi più raggiungibile da un pubblico
potenzialmente più vasto). La clientela di queste osterie è
spesso la stessa da anni, anche se incrementata in modo significativo dal
"passaparola": in particolare si tratta di cacciatori ed escursionisti, altri
sono stati frequentatori in gioventù e ora portano anche le loro
famiglie, ma in generale i venti-trent'enni, per esempio, preferiscono le
pizzerie.
Per alcune attività che passano di mano e vengono gestite da
titolari giovani (la trattoria-pizzeria "Saisoletti" a Creto, per esempio), ce
ne sono assai di più che chiudono i battenti (specialmente nelle
frazioni del comune di Valbrevenna)[1] o che si
trasferiscono, cosa che, per l'economia locale, ha lo stesso significato
(è il caso della trattoria "A Ca' du Giancu" a Porcile, in Valbrevenna):
l'ennesimo paese resta "scoperto" quanto ad attività produttive e
ricettive, esponendosi al rischio dello spopolamento e della frequentazione
esclusivamente stagionale (numerose sono le seconde case in tutti e quattro i
comuni oggetto d'indagine).
A Pareto resiste la trattoria "Da Nin", il cui
nuovo proprietario l'ha rilevata nel 1999: egli testimonia che è duro
riuscire a passare l'inverno, con gli scarsi avventori di tutti i giorni e
certe domeniche in cui non vede un "furestu": "Quest'anno tengo ancora aperto,
il prossimo non lo so, pensi che qui, fino ai primi anni '80, le trattorie
erano due, c'era il negozio di alimentari, il forno...".
La situazione a fondovalle e nella frazione di Creto è sicuramente
migliore: in quest'ultimo caso giova la vicinanza a Genova (sono 15-20 minuti
in macchina, ma si può anche prendere l'autobus)[2], e la rinomanza delle due trattorie storiche,
"Saisoletti" e la "Locanda dei Cacciatori"; nel primo caso gioca sicuramente a
favore la maggior accessibilità rispetto a località più
isolate dove occorre guidare su strade dissestate o interessate da frane e
smottamenti di varia entità nella ormai lunga e piovosissima stagione
autunnale.
Da segnalare l'energia e l'intelligente gestione che caratterizza
spesso queste imprese: dal ristorante "Alfredo" in località Bromia
(Montoggio) - frequentato fin dal primo Novecento e noto per l'esperienza ed
energia della titolare - alla trattoria "Antola" di Molino Vecchio
(Valbrevenna), i cui tre soci, oltre a riproporre interessanti ricette locali,
si distinguono per inventiva e formulazione di progetti (valga per tutti l'idea
di riservare un locale, collegato all'Ente Parco, ad accoglienza e riparo,
usufruibile 24 ore su 24, con possibilità di cucina, alloggio notturno e
punto di riferimento per le emergenze).
A Tre Fontane (Montoggio) è
fortunatamente ben operativa la storica trattoria "Rosin", più che
centenaria; ricordiamo però che è l'unica rimasta in quella
frazione, e che nella vicina Acquafredda non ne rimane nessuna (l'osteria
"Assuntìn" ha chiuso nel 1978 e la proprietaria è deceduta da
alcuni anni, così che non si è potuto nemmeno registrare la
memoria delle sue ricette: il figlio, intervistato, ne ricordava solo alcune).
A Nenno di Valbrevenna, dal 1995 è stata rilevata la vecchia "osteria
con cucina" (presente dai primi del Novecento) da parte di un giovane
imprenditore, che nel suo "Il Caminetto" offre una cucina in cui dosa
sapientemente prodotti e tradizioni locali con le più moderne esigenze
del palato: basta pensare alle interessanti rivisitazioni sui temi della carne
di maiale e delle castagne. Il "Mulino delle trote" a Vobbia, località
Mulino Cascè, si è attrezzato anche per fornire servizio mensa,
due volte la settimana, agli alunni della scuola elementare comunale.
Ci sono, in un quadro generale certo non confortante, anche segnali di ripresa
e di iniziative considerevoli, purtroppo ancora sporadiche e legate al coraggio
dei singoli imprenditori, e che per questo meritano una menzione
particolare:
Una Guida alla scoperta dei prodotti locali[3] pubblicata a dicembre 2000
segnala produttori e ristoratori di questa porzione della Valle Scrivia, quale seguito
del progetto "Rete di mercato locale" promosso dall'Ente Parco regionale dell'Antola.
Questa prima organizzazione tra produttori e ristoratori delle alte valli Scrivia e Trebbia,
ancora in fase di sperimentazione nel suo funzionamento economico e istituzionale, è
certo la condizione per garantire la specificità dei prodotti locali e la continuità
della conduzione aziendale.
Caratteristica comune nell'area presa in esame era la presenza, come fattore
di sussistenza imprescindibile, del castagneto: la scomparsa della coltura del
castagno si configura proprio come uno dei cambiamenti più radicali
subiti dall'area, e un vero spartiacque tra due epoche, tra le generazioni del
"durante" e quelle del "dopo". Tale coltura ha lasciato tracce ancora ben
leggibili nel lessico, nel territorio e nell'alimentazione degli informatori
più anziani, ma si tratta, appunto, di sopravvivenze: gli essiccatoi
giacciono come relitti in castagneti da frutto che quasi nessuno cura
più (diminuiscono ogni anno le famiglie che fanno seccare le castagne,
fino al secondo dopoguerra attività di primaria importanza), i mulini,
che macinavano soprattutto castagne, ceci, granturco, sono in disuso da
decenni, crollano o finiscono con l'essere trasformati, avendo perso la loro
funzione.
Nell'alimentazione, piatti di consumo abituale come le castagne
grasse, contenenti fra l'altro cotiche di maiale, sono sconosciuti ai
più giovani: era una ricetta robusta per chi manteneva se stesso e la
propria famiglia con i lavori faticosi che la terra e la gestione degli animali
comportava, e doveva superare inverni più rigidi e nevosi dei nostri in
case mal riscaldate. L'uso delle castagne in cucina, fino agli anni '50, e in
qualche caso anche oltre, prevedeva la pasta fresca fatta con farina di
castagna (faina neigra) mista (in proporzioni che andavano dalla
parità al di poco superiore) a farina di grano (faina gianca), il
castagnaccio, le rustie (castagne arrostite nella padella coi buchi), le
castagne bollite, le minestre con castagne, e l'onnipresente
riso-castagne-e-latte.
Non a caso, per quanto riguarda la presente ricerca, su
352 ricette trascritte, le castagne sono presenti 44 volte, sia come frutti che
come farina, e ogni informatore nato almeno durante la seconda guerra mondiale
ne conserva la memoria. La castagna era il frutto povero di boschi di montagna,
che oggigiorno i nostri palati esigenti e raffinati amano magari in versione
"ricca", come "marron glacè", o in confetture (per non parlare del miele
di castagno, oggi usato come dolcificante: una volta il miele era un
ingrediente della farmacopea, usato nelle infiammazioni del cavo orale).
Certo
sono interessanti questi usi contemporanei che rivisitano un frutto tanto
antico, e che potrebbero magari, anche qui, rivitalizzarne il consumo, ma non
va dimenticato che, ancora in tempi recenti, il castagno era "l'albero " per
eccellenza (lo attestano i dialetti), generoso e fondamentale per la
sopravvivenza delle generazioni che si sono susseguite nella cura dei boschi di
montagna: vi si ricavavano frutti, legname (per costruire e per scaldarsi),
tannino (si estraeva dalla corteccia), lettiera per gli animali (dalle foglie
cadute, che poi, tolte dalle stalle, servivano per concimare i campi).
Quello
che si sta perdendo con l'abbandono della coltura del castagno è un
intero patrimonio storico: l'efficace gestione e l'utilizzo del castagneto da
frutto era anche un modo intelligente e lungimirante di utilizzare le risorse
del territorio, poichè la "cultura del castagno" comportava,
oltre alla possibilità di sfamarsi, la manutenzione di una rete di
sentieri e mulattiere che attraversava boschi e versanti, impediva alla terra
di franare a valle e ai corsi d'acqua di riempirsi all'improvviso, e la
gravità degli incendi (piaga della nostra regione) era limitata dalla
vigilanza dell'uomo (non dimentichiamo che esistevano pratiche di fuoco
controllato, oggi osteggiate dalla legislazione). In un tale panorama, il
contadino presidiava la terra da cui ricavava sostentamento, e il sistema
funzionava in modo tale che le risorse non andavano sprecate ed erano
rinnovabili.
La crisi del mondo rurale e l'esodo dalle campagne e dalla montagna hanno fatto
cadere, in modo praticamente irrimediabile, le funzioni storiche dei castagneti
da frutto: ma se ieri prevalevano le funzioni produttive, oggi si potrebbero
rivalutare almeno quelle ambientali. Il castagno è utilissimo per
combattere i problemi di erosione del suolo, ed essendo una delle piante a
più rapido accrescimento, per di più dotato di mole
considerevole, si qualifica anche come efficace filtro naturale, come ottimale
depuratore dell'aria inquinata, altra croce del nostro tempo.
Le realtà incontrate nel corso dell'indagine, prima fra tutte quella
appena descritta, sono dunque residui, sopravvivenze di modi di vivere e
operare sul territorio che sono state dominanti e condivise dalla popolazione
locale: sono tutte presenze marginali (che contengono prodotti di
nicchia e pratiche in via di estinzione), ma significative, se non dal
punto di vista economico, certamente da quello dell'identità, del
collocarsi in una storia comune, dell'appartenza ad un territorio con una sua
identità, plasmato dal lavoro comune di generazioni di uomini. E' per
questa ragione che, nel corso delle interviste, è stato dato spazio a
tutte le informazioni, attribuendo pari validità sia alle ricette
tuttora preparate (quotidianamente o nei giorni di festa, ma questa distinzione
è, nel nostro tempo, sempre più sfumata) sia a quelle ricostruite
sulla base dei ricordi personali dell'informatore (risalenti magari alla sua
prima giovinezza), anche se queste ultime erano inevitabilmente più
imprecise e lacunose: ciò che conta, infatti, è registrare la
memoria dell'esperienza locale così come è sopravvissuta nella
mente dell'informatore, con tutte le sue deformazioni, utili però a
ricostruire il quadro di una società in un certo contesto storico.
Sempre sulle informazioni raccolte, è interessante rilevare, nel paese
di Crocefieschi, l'esistenza dei corzetti, i dischetti di pasta stampata
con appositi strumenti in legno, nei quali i disegni differivano di famiglia in
famiglia, e già segnalati nel corso delle ricerche effettuate nel 1999
nella Valle di Recco.
Ancora una volta è stata messa in evidenza la ricchezza, in termini di
variabilità, delle ricette locali: 18 versioni di pesto, 5 di
salsa di noci, 8 modi di preparare il cinghiale e 17 piatti a base di funghi
(sia i pregiati porcini che le varietà locali: i masin-ni, i
sementìn...), tanto per fare qualche esempio, e più si va
indietro nel tempo, più emerge "l'arte di arrangiarsi" di chi abitava le
frazioni dell'Alta Valle Scrivia in tempi meno opulenti dei nostri, quando la
crema del latte sostituiva l'olio, e prezzemolo, spinaci o borragine bolliti
soccorrevano la scarsa quantità di basilico disponibile.
Attualmente i ristoratori soddisfano una clientela "cittadina" e moderna, che
chiede sì piatti genuini e "del posto", ma che va conquistata con
ricette elaborate, nei quali l'"antico" e il "locale" si innestano in proposte
raffinate: ecco allora le castagne nel dolce Montebianco o nella
Bavarese, la mostardella nel risotto (uno dei piatti forti de "Il
Caminetto"), i funghi come ripieno nelle foglie di castagno o gustoso
accompagnamento di arrosti, il fagiano cucinato con aceto balsamico (alla
"Locanda dei cacciatori"). Nelle osterie del tempo di guerra, ma anche dopo, si
serviva "tanto stufato di capra con la polenta, la zuppa con le trippe, i
taglierini e il minestrone" (testimonia un'anziana ex ristoratrice della
Valbrevenna, che ancora li cucina per la sua famiglia, spesso sulla stufa).
Comune ai ristoratori di ieri e di oggi è l'offerta, molto apprezzata
dai commensali, di trofie de castagna, servite con pesto rigorosamente
di solo basilico! Note solo agli informatori più anziani, infine, alcune
preparazioni nell'ambito della farmacopea, che abbiamo voluto segnalare, anche
se non sono propriamente ricette in quanto parte del patrimonio di conoscenze
locali: semplici rimedi per il mal di denti, per i sintomi influenzali, o utili
come lassativi.
Alcune delle ricette riportate sono disponibili in trascrizione e in viva voce (formato MP3)
Riferimenti bibliografici (dalla ricerca Guida alla scoperta dei prodotti locali, cfr. nota [3]).
[1] Soprattutto se si fa una valutazione a
partire dal 1980 ad oggi
[2] Anche se i ristoratori lamentano un minor
numero di automobilisti transitanti per Creto, e suggeriscono una miglior
segnalazione della località nella zona della Doria, a Genova.
[3] Charta - servizi e sistemi per il territorio e la storia ambientale s.r.l.,
Comuni montani dell'Alta Valle Scrivia (Crocefieschi, Montoggio, Valbrevenna, Vobbia). Guida alla scoperta dei prodotti locali,
Comunità Montana Alta Valle Scrivia - Erga; progetto finanziato con fondi Regione Liguria-UE Ob. 5B, sottoprogr. 4, Mis. 2,
"Miglioramento e promozione delle produzioni agricole locali", Studio "Prodotti di montagna dell'Alta Valle Scrivia", Genova 2000.