I comuni della Valle Sturla -- Borzonasca e Mezzanego.

Relazione interpretativa

Trascrizione interviste
Valle Sturla

Maria Teresa Caprile
Stefania Notarnicola



Area e testimoni

La ricerca di terreno si è svolta tra giugno 2001 e aprile 2002, e ha coperto le località comprese nei comuni di Borzonasca e Mezzanego.

Il paesaggio della Valle Sturla è rappresentato in gran parte da noccioleti, castagneti e zone forestali: l'estensione delle aree coltivate indica una considerevole utilizzazione antropica del territorio, passata o ancora in atto, che ha senza dubbio modificato la morfologia ed il soprassuolo naturale a vantaggio di uno sfruttamento agricolo dei versanti.

Le difficili condizioni morfologiche delle aree in esame, soprattutto le forti pendenze dei versanti, sono mitigate dalla sistemazione a fasce.

L'immane opera di intervento sui versanti, eseguita con i terrazzamenti, oltre a rappresentare pressoché l'unica opportunità di sfruttamento delle vallate più acclivi, costituisce un efficace sistema di controllo delle acque, e interessa quindi gli aspetti idrogeologici, agronomici, ma anche quelli culturali e paesaggistici.

L'elemento antropico ha fortemente influenzato il paesaggio ligure, e ai ben noti terrazzamenti si affiancano caratteristiche opere di ingegneria idraulico - agraria, i bei o beudi, canali di adduzione delle acque ad uso principalmente agricolo.

Tali manufatti, presenti sul territorio fin dal XVIII secolo, furono oggetto di disputa tra interi paesi della valle. Ad esempio tra gli abitanti di Perlezzi e quelli di Caroso e Caregli, o ancora tra "Perlezzesi" e "Gazzolesi". Il beo, infatti, faceva parte, così come i boschi e i pascoli, dei cosiddetti "beni frazionali", i cui diritti di utilizzo venivano goduti dalle famiglie contadine che risiedevano nelle frazioni. Sui beni frazionali, noti come "monti", si esercitavano il diritto di pascolo e di utilizzazione del bosco che non era semplicemente diritto di legnatico, bensì consentiva la caccia, la raccolta di funghi e di mirtilli. Anche la gestione del beo era regolamentata da precise norme, redatte dalle stesse famiglie che facevano parte delle frazioni interessate. Nel contratto si definiva il turno, il tempo di adacquamento che solitamente era proporzionale alla superficie coltivata; anche la manutenzione ordinaria e straordinaria dei canali era a carico degli utenti, in modo proporzionale alla superficie agricola posseduta.


Tra le destinazioni agricole dei Comuni di Borzonasca e Mezzanego, che costituiscono la parte più ampia e settentrionale del territorio del bacino del torrente Sturla, troviamo particolarmente rappresentate quelle che vengono definite "colture agricole eterogenee".

Questo tipo di destinazione si può spiegare con il fatto che l'agricoltura delle zone più interne è legata all'autoconsumo ed al part-time, svolgendo quest'ultimo un'importante funzione di presidio sul territorio. Molte località si popolano infatti nei fine settimana e nei giorni festivi, e molte operazioni colturali sono espletate in queste occasioni.

Sono inoltre presenti zone a prato e a colture foraggere, legate alla presenza di un numero ormai in diminuzione di capi di bestiame.

La specializzazione del vigneto è molto bassa: esso è spesso consociato ad altri fruttiferi (meli, peri, peschi, susini). Il vigneto inteso come coltura arborea specializzata a ciclo poliennale non è più presente sul territorio, a parte superfici minime.

Tra le colture legnose è prevalente la coltura del nocciolo, specialmente nel Comune di Mezzanego, con una superficie complessiva valutabile in 80 ha circa.

Nel territorio di Borzonasca invece prevale la coltura del castagno.

Anche a Borzonasca e a Mezzanego, sui versanti collinari con esposizione favorevole (sud o sud-est) ed al riparo dai venti settentrionali, si riconoscono zone ad uliveto.

I terreni incolti, totalmente o in parte, ammontano a circa 1% della superficie del bacino, e sono ubicati prevalentemente nelle frazioni più difficilmente raggiungibili.

Queste situazioni rispecchiano la tendenza all'invecchiamento della classe degli operatori agricoli e alla cessazione dell'attività stessa.

In qualche caso le aree incolte interessano anche oliveti, che tendono a diventare arbusteti o macchie, e anche i noccioleti che evolvono verso il bosco di latifoglie misto o a prevalenza di castagno.

Si può osservare che anche nelle aree incolte permane, a volte, un livello minimo di operazioni colturali come lo sfalcio estivo ed il debbio invernale.


Sono da segnalare le aree a vegetazione rada e a rocce nude situate in corrispondenza dei rilievi più alti ed impervi (Monte Ramaceto, Monte Aiona, Monte La Scaletta, Monte La Rocchetta ed altri), o nei pressi di zone particolari come il Passo della Forcella, dove è presente una paleofrana.

Da menzionare la superficie occupata da bacini d'acqua, per 81 ha circa, riguardanti gli invasi dei laghi di Giacopiane, di Pian Sapeio, di Malanotte e Zolezzi.


Come si era verificato anche nelle tranche precedenti, sono stati ascoltati, con il metodo già collaudato per i lavori dedicati all'Alta Valle Scrivia e al Ponente Genovese, ristoratori, produttori e informatori "privati": questi ultimi estranei al circuito produttivo, ma disponibili a condividere il loro tempo e le loro conoscenze in nome della valorizzazione del territorio a cui appartengono, "perchè la nostra valle sia un po' più conosciuta e considerata". In genere i testimoni contattati (e soprattutto coloro che in Valle Sturla hanno ancora la propria azienda) si sono mostrati entusiasti nei confronti del progetto "Conservatorio delle Cucine Mediterranee", e fiduciosi che questo possa essere un canale privilegiato per presentarsi a tutti quei turisti che, ancora troppo spesso, credono che la Liguria sia soprattutto (o esclusivamente) Riviera.


Nel complesso sono stati ascoltati 55 testimoni, 19 residenti nel comune di Mezzanego e 36 in quello di Borzonasca.


Grazie alle interviste effettuate, sono stati informatizzati 410 record relativi a prodotti/piatti e 306 di cultivar ortofrutticole, per un totale di 515 record.


Sui "piatti locali"

La quantità e variabilità delle ricette raccolte permette di fare alcune considerazioni. Innanzitutto alcuni piatti emergono in maniera più significativa, come era visibile già durante le battute iniziali delle interviste: le prime ricette nominate spontaneamente dagli informatori riguardavano la baciòcca, i micòti, la panella, la patun-a, la puta, la turta de risu, il praebuggiùn, da loro stessi considerati "caratteristici", "propri della nostra zona".


Confronto tra i dati bibliografici e quelli del Conservatorio

Sono stati esaminati una serie di testi1 relativi soprattutto alla cucina regionale, e da questa analisi sono emerse le seguenti considerazioni:

  1. alcune pubblicazioni non riportavano nessuna delle ricette relative ai piatti nominati in precedenza: nella bibliografia che conclude la presente relazione sono citate esclusivamente le 21 in cui ne compare almeno una;
  2. le ricette dei micòti e della puta non vengono mai nominate, tranne che in Arena, 1987, pubblicazione specificamente dedicata alla Valle Sturla, e in Plomteux, 1981, volume etnografico dedicato alla limitrofa Val Graveglia;
  3. analisi dei 7 "piatti locali" precedentemente elencati.


la turta de risu

presente in 10 testi.

Essa può essere "chiusa", se una sfoglia ricopre il ripieno, oppure "aperta", se la torta viene infornata con il ripieno visibile. Per quanto riguarda quest'ultimo, esso prevede un numero variabile di ingredienti, ma quelli che compaiono più spesso, oltre ovviamente al riso, unico immancabile, sono le uova, il formaggio (grana grattugiato/ricotta/prescinsoa) e le cipolle. Semplice ma importante la premessa in Vigliero Lami, 1998: "Le torte salate in genere nacquero per motivi economici; con poco e vario materiale si poteva creare un piatto unico, appetitoso e nutriente, buono da mangiare sia caldo che freddo". La torta di riso viene qui citata sia nella versione aperta che in quella chiusa, e il ripieno non contiene cipolle. In Dolcino, 1990, la torta di riso è chiusa, non contiene uova ma passata di pomodoro. Anche in Accame, 1997, è riportata una ricetta che prevede l'uso della salsa di pomodoro, oltre a uova e grana grattugiato. Uova e grana anche in Martini, 1975, e in più la scorza di limone grattugiata: questa è presente anche in Molinari Pradelli 1996, ma senza cipolle. In Marchese, 1989, l'unica ricetta di torta di riso riscontrata è nel capitolo dedicato ai dolci: è una torta dolce, contenente zucchero. In Marchese, 1990, leggiamo invece 3 differenti ricette: una torta di riso senza sfoglia, dove l'impasto (composto, tra l'altro, da uova, grana e pecorino) poggia direttamente sulla teglia; una con due sfoglie (una per contenere, l'altra per chiudere), con ripieno che prevede anche grana e cipolle; infine una torta tipica di Soviore nelle Cinque Terre, con due sfoglie e ripieno dove compaiono, tra l'altro, salsa di pomodoro, uova, grana e funghi secchi. Anche per Arvo, 1991, si devono usare i funghi secchi, ma non il formaggio, come per la "torta di riso al magro" in Schmucker, 2000, mentre in Sola, Sentieri, 1993, compaiono sia la prescinsoa che i funghi, e in Gavotti, 1974, funghi, uova e formaggio. In Sola, 1993, infine, la torta di riso è aperta e prevede l'uso, tra l'altro, di uova e prescinsoa.


A questo punto vale la pena proseguire nell'operazione di analisi delle ricette occupandoci di quelle raccolte per il Conservatorio, e osservare che, nel territorio della Valle Sturla, che non è che una piccola porzione della Liguria, la torta di riso è stata descritta 18 volte, tra le quali una versione "dolce". Gli ingredienti comuni a tutte le sfoglie elencate sono farina di grano e acqua, mentre nel ripieno sono quasi sempre contenuti, oltre ovviamente al riso, uova, cipolle e grana grattugiato (presenti contemporaneamente in 16 ricette su 18).


il praebuggiùn

nominato in 12 testi.

Praebuggiùn è un nome che indica ricette anche molto diverse fra loro, come hanno evidenziato i risultati dello stesso Conservatorio. Per Gavotti, 1974, esso è "un insieme di ortaggi e erbe di campo, peraltro di differente composizione a seconda della località. Per le Cuciniere del Rossi e dei Ratto, ad esempio, è costituito da bietole, cavoli cappucci ("gaggie"), prezzemolo; nella Riviera di Levante si compone di erbe selvatiche quali la cicerbita, la talegua, la pimpinella, il dente di cane, la borragine". Così ne parla per la ricetta del "riso e preboggiòn (erbette)". Più oltre lo rinomina a proposito del "preboggiòn saltato": "è un insieme di erbe commestibili selvatiche (si dice almeno 7) che nascono spontaneamente. Dette qualità variano a seconda della stagione. Fra di esse si può ricordare la gaggia, la borrana, la bietola e il radicchio selvatici, la cicerbita, la talegua, il dente di cane. Solo sui mercati di Genova o della Riviera si può trovare questa verdura". Le erbe vanno lessate, tagliate grossolanamente e fatte saltare in un intingolo di acciughe, olio e aglio tritati. Anche Feslikenian, 1972, parla di un "riso col preboggion", dove per preboggion si intende la borragine: la ricetta contiene bietole, borragine, cavoli e cavoli cappucci. In Molinari Pradelli, 1996, si legge: "il preboggion è famoso e squisito, con il radicchio prodotto negli orti di Chiavari". Occorre lessare questo radicchio, scolarlo e coprirlo con un "sughetto" fatto con aglio tritato, rosmarino, salvia, olio e aceto. Arvo, 1991: "la primavera è la stagione consacrata al preboggion, saporosa miscela di erbe selvatiche (che pare possa addirittura arrivare a 16 elementi!) utilizzata in molte ricette, dai pansoti alla frittatina alla minestra [...] Solo in Liguria, specie nei dintorni di Genova, si può trovare il preboggion, che è un mazzo di erbe commestibili nate spontaneamente. A Sestri Ponente, sino a qualche tempo fa, l'8 agosto si faceva in piazza il preboggion e lo si offriva gratuitamente. Queste erbe variano a seconda della stagione, infatti troverai preparazioni col preboggion un po' tutto l'anno. Tra di esse vi è un tipo di erba primaticcia chiamata gaggia, la borrana o borragine, le bietole e il radicchio selvatici, inoltre il cerfoglio, la pimpinella, la cicerbita e la talegua (dente di cane)". Prima di metterle nel ripieno dei pansoti queste erbe vanno lavate, lessate senz'acqua, strizzate e macinate. Anche Burani, 1991, nomina i "pansoti alle erbe (Preboggion)", dove quest'ultimo è "un mazzo di erbe commestibili spontanee che si trovano solo nei mercati di Genova e dintorni". Schmucker, 2000, cita il "riso con verdure (Preboggion col riso). Questo è un piatto più ricercato e, potremmo dire, perfezionato, ma realizzato sulla base del classico, antico e al tempo popolare Preboggion che -- scrive Ludovico Giordano nel suo volume Antichi usi Liguri (1933) -- stette per secoli a rappresentare l'alimento quasi costante degli stomaci frugali o della facile accontentatura. Esso era un amalgama di cavoli o di altre verdure rimescolati con patate disfatte e col dovuto condimento [...] [A Sestri Ponente l'8 agosto, ndr] donne e ragazzi provvedevano a raccogliere in giro il materiale necessario a preparare il grosso intruglio di verdure cui però, a differenza dell'antico, quello appunto citato dal Giordano, veniva aggiunto anche il riso. Questa mangiata generale di Preboggion (veniva offerta anche una sorta di polpettone) si teneva in ricordo della fame patita in occasione del blocco di Genova del 1800". Anche Accame, 1982, cita il "Preboggion co o risu": in questo caso la verdura è costituita da bietole e cavoli cappuccio. Accame, 1997, scrive semplicemente che i "ravioli del Levante fritti (Gattafuin)" si fanno "con erbe selvatiche (prebuggiun)". Bagnasco, 1995, scrive: "pansoti e prebôggion, un unicum tutto ligure. Le erbe alla base del ripieno dei pansoti formano quella miscela da noi detta prebôggion. In altre regioni le stesse erbe, non utilizzate però per uguale funzione, sono note sotto il nome di misticanza o crescione [...]. Per essere tale il prebôggion deve contenere, a seconda della stagione, verza primaticcia, raperonzolo, ortica, pissarella, borragine, bieta, radicchio selvatico, cerfoglio, pimpinella, cicerbita, talegua [...] [che] sono sempre più rare sui mercati delle verdure, e compaiono solo sulle bancarelle di] vecchie venditrici rivierasche che li raccolgono lungo le fasce [...] Questa miscela di erbe va bollita, strizzata e passata in padella con un po' d'olio, qualche acciuga stemperata e aglio". In Plomteux, 1981, u prebugiún contiene "dentro una pignatta grande cavoli, patate, fagioli, bietole, poi lo si lascia cuocere bene, e poi si schiaccia. Inoltre si fa un bel soffritto di lardo e si aggiungono olio, tutti i gusti, cipolla, prezzemolo, aglio [...] Questo prebugiún, orgoglio delle massaie della zona, varia da una casa all'altra. [...] Si tratta dunque di un vero minestrone, ben diverso dal prebugiún della Riviera, che è un'insalata di varie erbe crude, o anche cotte". In Marchese, 1990, l'unica traccia assimilabile al prebuggiun (e, se non al nome, almeno alla composizione) è una "torta d'erbi, pinoli e uvetta", riscontrata nello Spezzino, il cui ripieno prevede l'uso di non specificate erbe spontanee oppure bietole, uova, zucchero, grana, ricotta, pinoli e uvetta. Cabona, 1994, non cita il prebuggiun, ma indica una ricetta denominata "pansotti ripieni di erbette", dove queste erbette sono "bietole, cicerbita e altre piante selvatiche", il che farebbe pensare all'appartenenza a questo gruppo. In Arena, 1987, infine, il praebuggiun è un "miscuglio di patate schiacciate a mo' di purea insieme al cavolo nero soffritto in un'ampia padella con cipolle, pancetta oppure lardo tritati. E' ottimo anche col solo olio di oliva".


Per il Conservatorio sono state raccolte 24 ricette di praebuggiùn: con questo nome gli informatori hanno indicato sia i piatti contenenti erbe spontanee locali, bollite da sole o con patate e/o altre verdure (bietole, ortiche) (12 record), sia quelli composti da verdure quali fagiolini, bietole, ortiche e patate, senza l'uso di erbe selvatiche (5 record), sia la composizione di cavoli neri e patate bolliti (7 record). Il praebuggiùn può essere condito con olio crudo e sale fino oppure essere arricchito da altri ingredienti: soffritto di olio e cipolle/aglio, lardo, grana grattugiato. Erbe spontanee locali ("le erbe per fa u praebuggiun") entrano anche nel ripieno di pansòti e ravioli (7 record) e di una torta pasqualina (1 record).


la panella o castagnaccio e la patun-a

Compare in 12 dei testi consultati, a volte con entrambi i nomi, ma più spesso col solo termine castagnaccio.

In Vigliero Lami, 1998 è presente una distinzione tra le due ricette: "La panella è una sorta di castagnaccio molto povero, di origine montana: era il vero e spesso unico pasto della gente dei monti, dove le castagne abbondavano, unito d'inverno a una tazza di brussu, cioè brusco, latte cagliato unito a pepe e acquavite lasciato fermentare, corroborante bomba antifreddo [...]. Il castagnaccio è più ricco della panella, viene consumato spesso anche in città [...] tipico delle sere dei morti, ai primi di novembre". E' più ricco in quanto contiene, oltre a farina di castagne e acqua (panella), anche uva secca, pinoli, semi di finocchio. Con tutti questi 5 ingredienti presenti è indicato, sia come castagnaccio che come panella, in Dolcino, 1990; col solo nome di castagnaccio in Abbiati 1999; con la denominazione di panella in Molinari Pradelli 1996; in Sola, Sentieri, 1993, il castagnaccio ne contiene solo 4 (niente semi di finocchio). Una piccola variante si riscontra in Accame, 1982: qui la panella è costituita da farina di castagne, acqua, pinoli e bucce di mandarino. L'autore aggiunge: "L'uso prolungato della panella, carente di grassi, comportava degli inconvenienti, ma si cercava di rimediare con l'aggiunta di opportuni condimenti". Stessa composizione in un'edizione successiva dello stesso autore (Accame, 1997), dove si attribuiva indifferentemente alla ricetta il nome di castagnaccio e panella. Nella stessa raccolta si leggono i friscio de castagne (frittelle di farina di castagne), con una composizione quasi identica al ricco castagnaccio (pastella di farina di castagne, latte, pinoli e uvetta), ma fritte in olio anziché cotte nel forno. In Plomteux, 1981, u castagnasu è "un dolce che ha l'aspetto di un pane e che contiene non solo la farina ma anche pezzetti e scarto di castagne... e viene cotto sotto u testu". Un semplice impasto di farina di castagne, acqua e sale è il castagnaccio in Marchese, 1989. Cabona, 1994 scrive: "Tra i dolci tradizionali si possono ricordare il castagnaccio a base di farina di castagne, pinoli e olio di oliva, che un tempo veniva cotto sul testo". Pronzati, 1994, riporta la ricetta del castagnaccio o panella, riferita alla Val Graveglia e Val Fontanabuona: un impasto di "500 gr. di farina di castagne, 750 gr. d'acqua, olio, pinoli, semi di finocchio e uvetta", mentre per il savonese cita una composizione diversa: farina di castagne, acqua, zucchero, olio, pinoli, cedro, scorza d'arancia. Arena, 1987 menziona "un castagnaccio... a volte ricco di pezzetti di salsiccia e pinoli (patun-a). "Simile alla polenta, ma cotta sotto u testu grande a campana, è ... a panéla, a base di farina di castagne e scarti e pezzetti di castagne" (Plompteux, 1981).


Tra i dati del Conservatorio la panella è presente in 9 record, anche qui, come per il praebuggiun, con una certa "confusione": alcuni informatori chiamano panella il castagnaccio, ossia la mescolanza (più o meno arricchita con pinoli, uvetta e semi di finocchio) di farina di castagne e acqua (6 record), ma in 3 casi la panella è un impasto di farina di mais e acqua. Il nome dialettale del castagnaccio sarebbe allora, probabilmente, almeno in Valle Sturla, la patun-a, come farebbe pensare un testimone che cita testualmente: "la patun-a, o castagnaccio, si fa così...". E cioè farina di castagne e acqua come ingredienti di base, più eventuali altri condimenti. Per la patun-a il Conservatorio ha trascritto 12 record. In ogni caso, il castagnaccio/patun-a è sempre una sorta di schiacciata sottile, alta al massimo 1,5 cm., morbida e umida al centro, con la crosta appena croccante: "chi vuole la fa scetta (= schietta), se non ci metti i pinoli e le altre cose". Spesso viene accompagnata da formaggetta e/o ricotta, perché, come giustamente notava Accame, 1982, non apporta tutti i principi nutritivi necessari, anche se, soprattutto attualmente, viene cotta in teglie ben unte d'olio (un tempo si usavano come carta forno le foglie di castagno). Mai riscontrato nel corso delle nostre ricerche, invece, l'uso del brussu, documentato (ma senza specificare in quali aree) da Vigliero Lami, 1998.

Quanto alle testimonianze sulla patun-a da parte degli autori consultati, ne troviamo in Plomteux, 1981 ("è [una sorta di farinata,ndr] a base di granturco", che riecheggia la confusione di termini/ingredienti già riconosciuta con le fonti orali. In Pronzati, 1994, è riportata una ricetta di "farinata di castagne o castagninn-a: 500 gr. farina di castagne, 2 l. acqua, olio, uvetta, pinoli, semi di finocchio", che potrebbe appartenere al campo panela o patun-a. In Marchese, 1989, è citata una "patuna pontremolese", composta da farina di castagne, acqua, sale: "è una sorta di pane grezzo cotto sotto il testo da mangiare accompagnato da ricotta, formaggi freschi, salsiccia". In Valle Sturla, però, la patun-a non è mai un pane.


la baciòcca

la troviamo citata in 5 testi.

In Abbiati, 1999, c'è una "torta di patate" che si prepara confezionando due sfoglie di farina di grano, acqua, olio, sale: una sfoglia serve per fasciare una teglia unta d'olio e contenere un ripieno fatto con patate bollite e schiacciate, cipolle, grana grattugiato, latte, lardo, porro, sugo d'arrosto, salsa di pomodoro, burro, olio, e la seconda sfoglia per chiudere la torta prima di infornarla. La presenza di patate cotte pur essendoci la sfoglia, l'aggiunta di porro, sugo di arrosto e salsa sarebbe considerata assai eccentrica dagli informatori della Valle Sturla, che non la riconoscerebbero come baciòcca. Cabona, 1994, cita: "Tra le torte di verdura merita una menzione la bacioca, morbido polpettone a base di patate bollite condite con aglio, prezzemolo, cipolla, lardo e olio, cotto al forno per circa 20 minuti". In Marchese, 1989, la baciocca si fa con due sfoglie, le patate crude, uova e cipolle, ma riporta anche una torta di patate, anch'essa contenuta entro due sfoglie, il cui ripieno è costituito, tra l'altro, da patate già bollite, porri, grana, besciamella/ricotta. Per Arena, 1987, la baciocca è una "torta di patate, schiacciate o affettate a medaglione, il tutto condito con uova, formaggio, cipolla soffritta con lardo o pancetta". In Plomteux, 1981, la baciocca è confrontata col pan de patate, rispetto al quale si dice che sia "più leggera e friabile": "Prima si fanno bollire le patate, poi le si condiscono con uova, aglio, cipolla, prezzemolo, lardo, mortadella, olio, e si schiaccia tutto con un mattarello. Basta una cottura di 20 minuti sotto il testo".


Per il Conservatorio gli informatori hanno definito 28 volte la ricetta col nome baciòcca, ma ci sono altri 15 record, registrati nel gruppo polpettone di patate: questo perché l'impasto può essere contenuto in una sfoglia - e allora rientra certamente nel gruppo delle torte salate - , oppure chiamarsi ancora baciòcca ma essere a tutti gli effetti una sorta di polpettone di patate (caratteristiche di questa versione: l'uso di patate già cotte, l'assenza di sfoglia), oppure ancora venire chiamato polpettone laddove altri informatori, nella stessa area, lo considerano una baciòcca. In ogni caso, l'unico ingrediente caratterizzante, immancabile, sono le patate: crude, nel caso della torta, cotte, nel caso del polpettone (ma che, lo ripetiamo, può chiamarsi baciòcca lo stesso!). E anche sulla varietà di patate non c'è convergenza di opinioni: c'è chi considera le quarantine "le migliori patate per fare la baciòcca", chi sostiene il contrario. Inoltre, è sempre presente condimento in abbondanza: olio oppure strutto, o lardo, o tutti e 3 contemporaneamente (magari soffritti con molte cipolle), perché la baciòcca è un piatto unico e sostanzioso, "dopo quella non mangi altro, però ci bevi assieme del buon vino rosso".


il pan martìn

compare in 3 dei 21 testi consultati.

Pronzati, 1996, descrive un "pane di castagne" diffuso nello Spezzino, costituito da "400 gr. di farina di grano, 300 gr. di farina di castagne, gherigli di noce, olio, lievito di birra e acqua": a parte la novità delle noci, che ne fanno un pane più calorico, è assimilabile al pan martìn. Marchese, 1989, fornisce la ricetta del "Pan Martin", composto da farina di grano, farina di castagne, acqua tiepida, lievito, gherigli di noci e olio: anche qui un pane condito, la cui composizione non corrisponde a quella del bacino dello Sturla. In Arena, 1981, è un pane che contiene metà dose di farina di castagne, "squisito e poco digeribile".

Diffuso anche in Val Graveglia (nonostante non lo troviamo nominato in Plomteux, 1981), è presente in 5 record nella ricerca del Conservatorio delle Cucine Mediterranee.


i micòti e la puta

I micòti sono nominati in Plomteux, 1981: "focacce grandi di farina di granoturco con cipolle, lardo, mortadella e condimenti vari che vengono cotti sotto u testu grande. Questo termine serve anche per indicare [nella parte alta della Val Graveglia, ndr] il pane casalingo".

Nel Conservatorio sono focacce di farina di mais e cipolle (l'altro ingrediente principale, in 10 casi su 14, sono le patate), ancor più spesso l'impasto è manipolato fino a raggiungere la forma di una palla grande quasi come un pugno: la cottura è nel forno o sotto il testo. In totale sono stati trascritti 14 record.

In Plomteux, 1981, la puta è la "vera polenta locale, piuttosto liquida e molle, non tanto però da rimanere attaccata al bastone con cui la si rimesta", ma è fatta con farina di mais, mentre tutti gli informatori della Valle Sturla hanno indicato, con questo nome, la polenta preparata con farina di castagne. In Marchese, 1989, la polenta di castagne è costituita da farina di castagne, acqua, sale, e si accompagna alla ricotta: il nome dialettale non c'è, ma è una puta a tutti gli effetti.

Arena, 1987, ne cita la presenza senza soffermarvisi.

Il Conservatorio ha raccolto 9 versioni di questa polenta, dolce e molle, quasi sempre consumata con latte freddo e mangiata col cucchiaio.


Interessante, in Martini, 1975, l'indicazione di due differenti versioni di pesto, a seconda che sia preparato per le trenette o per il minestrone: nel primo caso comprende basilico, pecorino e grana grattugiati, burro e pinoli, nel secondo mancano sia il burro che i pinoli e, rispetto alla quantità di foglie, diminuisce il peso del formaggio. Il pesto va aggiunto al minestrone "al suo ultimo bollore". Queste informazioni trovano riscontro in alcune delle testimonianze raccolte in Valle Sturla, dove si dice che il pesto per il minestrone sia diverso, addirittura preparato appositamente durante la cottura di quest'ultimo.


Conclusioni

In genere i testi di cucina non precisano quali indagini siano state condotte, oltre alla ricerca bibliografica, propongono una versione standard delle ricette, non la loro variabilità e la loro distribuzione sul territorio: inoltre vengono genericamente definite Liguri, al massimo possono essere attribuite al Levante o al Ponente, o ad una provincia. Il Conservatorio delle Cucine Mediterranee si innesta proprio in questo punto, dove la preparazione e gli ingredienti vengono scritti, codificati, e si perdono le differenze esistenti tra piatti che portano lo stesso nome ma non sono preparati nello stesso modo e in un'area geografica ben circoscritta. I vari metodi per preparare un piatto sono, oltre ad una variante soggettiva, una traccia storica: ci dicono che i loro consumatori, un tempo in gran parte anche produttori degli ingredienti necessari, dovevano necessariamente ingegnarsi per utilizzare tutte le risorse alimentari che la loro terra offriva, e là dove qualcosa mancava veniva sostituito con qualcos'altro (il prezzemolo al posto del basilico, le noci al posto dei pinoli, la farina di castagne mischiata a quella bianca per far durare più a lungo la costosa farina di grano...).

Quella che è stata qui proposta è solo una porzione esemplificativa del lavoro che è possibile fare, e delle osservazioni che se ne traggono, confrontando i risultati del lavoro di terreno con quelli della bibliografia. E' auspicabile l'inserimento, tra le pagine del Conservatorio delle Cucine Mediterranee, di un capitolo, da mantenere aggiornato, su libri e pubblicazioni interessanti dal punto di vista gastronomico e naturalistico sulle aree oggetto di indagine.


Sulle "Cultivar locali"

Dalle rilevazioni in campo possiamo mettere in evidenza quanto segue :

Dalla tabella che viene di seguito riportata è facile intuire come il paesaggio agrario possa essere differenziato nei due comuni, considerando le frequenze con cui negli stessi vengo citate le cultivar. Alla prevalenza del nocciolo nella bassa valle si passa ai maestosi castagneti presenti nel comune di Borzonasca.

Frequenza con cui sono state menzionate le cultivar, suddivise per gruppo e per comune

Coltivazioni

Borzonasca

Mezzanego

Totale

Castagna

75

0

75

Cavolo

7

1

8

Ciliegia

2

0

2

Cipolla

1

0

1

Erbe di Campo

7

0

7

Fagiolo

13

0

13

Frumento

13

0

13

Pisello

4

0

4

Mais

14

7

21

Mele

30

1

31

Melanzana

1

0

1

Nocciolo

3

35

38

Olivo

3

3

6

Patata

8

3

11

Pera

19

0

19

Pesca

3

2

5

Pomodoro

7

1

8

Prugna

5

2

7

Radice

1

0

1

Rosa

0

4

4

Uva

27

3

30

Totale

243

62

305


Nocciolo

La coltivazione del nocciolo nella provincia di Genova, si concentra essenzialmente nella Val Fontanabuona e in Valle Sturla, rispettivamente nei comuni di S. Colombano Certenoli e Mezzanego.

La superficie agricola investita a noccioleto ha avuto la sua massima espansione negli anni '50, quando si verificarono eventi propizi per la sostituzione del castagno: quest'ultimo infatti subì in quegli anni un decadimento legato alla presenza del cancro della corteccia, mentre la corilicoltura era all'epoca particolarmente redditizia, in quanto le nocciole, di ottima qualità organolettica, erano ricercate dall'industria dolciaria.

Con un ettaro di noccioleto si poteva mantenere una famiglia media di 4 - 5 persone, e il lavoro di un operaio agricolo ed edile veniva pagato con il corrispettivo di un chilo di nocciole.

In seguito a ciò, in zona nacquero cooperative e industrie artigianali che semilavoravano il prodotto, essiccandolo e/o tostandolo, prima di venderlo ad industrie dolciarie più grandi.

Oggi anche i noccioleti si trovano in uno stato di abbandono, in quanto tale coltivazione non è più remunerativa come una volta, vuoi per l'elevato costo della manodopera, necessaria soprattutto nella fase della raccolta, vuoi per l'apertura di mercati come quello turco, che è in grado di offrire un prodotto ad prezzo inferiore, in quanto è più basso il costo di produzione.

Altro problema di commercializzazione della nocciola della Valle Sturla è individuabile nella forma del frutto: l'industria, infatti, per problemi di lavorazione, richiede e preferisce una nocciola tendenzialmente tonda.

Maria Giorgina della Val Carnella, valle secondaria della Valle Sturla, ricorda che a settembre le nocciole venivano raccolte e si disponevano al sole, in uno strato sottile, per 4-5 giorni, sulle terrazze delle case; con il rastrello, poi, ogni due ore, si rigiravano, in modo che si asciugassero omogeneamente. Il prodotto veniva quindi essiccato, sgusciato e venduto ad importanti industrie dolciarie che tuttora lavorano nel settore. La produzione del padre di Giorgina, negli anni d'oro, era di circa 40 tonnellate.

Legato alla coltivazione delle nocciole, in Val Carnella era l'antico mestiere del restà (restaio), per la manifattura delle reste, collane di nocciole che ornavano i colli dei ragazzini alle feste e alle fiere di paese.

Addirittura il nonno di Giorgina, Agostino, aveva fatto costruire uno sbarramento, sul rio della Val Carnella, e un piccolo un mulino, tuttora funzionante ma non più utilizzato: l'energia prodotta dalla corrente del corso d'acqua metteva in moto una macchina creata da Agostino per bucare alle due estremità le nocciole, e poterle quindi infilare facilmente come perle a formare una collana. La pala del mulino faceva girare una puleggia che azionava il movimento dell'ago per la bucatura del frutto. Chi non possedeva questo ingegnoso attrezzo coinvolgeva tutta la famiglia nell'operazione: in particolare erano i più piccoli che, tornati da scuola, si prodigavano a praticare i fori nel guscio delle nocciole, dopo che queste erano state ammollate e si erano loro assottigliate le estremità. Le reste più belle sono considerate quelle di "tapparona".

Chissà se un giorno si potrà riprendere la coltivazione del nocciolo e il mestiere di restaio!

"Ogni cent'anni e cento mesi l'acqua torna ai suoi paesi", dice Giorgina: come a dire, ci sono cose che, a cicli, si ripetono, ritornano.

Le varietà utilizzate negli impianti e citate dagli informatori, sono principalmente la Dall'orto, la Tapparona, la "Bocciona" e la Sarveghetta.

Vengono di seguito riportate le principali caratteristiche delle cultivar di nocciole più rappresentative della Valle Sturla.


Caratteristiche varietali

Le diverse varietà si distinguono soprattutto per la forma del frutto: mentre la Dall'orto e la Del Rosso (Val Fontanabuona) hanno forma tondeggiante e, inoltre, la prima presenta un guscio sottile, la Tapparona è più allungata e appiattita.

Le varietà di nocciole Dall'orto e Tapparona, insieme alla Del Rosso, tipica della Fontanabuona, costituivano, con altre minori, quello che commercialmente era conosciuto come misto Chiavari. In particolare nella miscela corilicola vi era il 55% di Dall'Orto, il 17% di Del Rosso, 16% di Tapparona e il 12% di minori, quali Bianchetta, Longhera, Sarveghetta ecc.


Nocciola Dall'orto

(Valle Sturla, Val Graveglia, valli dell'entroterra chiavarese)

Alberi cespugliosi, molto polloniferi, di medio vigore; a rapido sviluppo, branche assurgenti, corteggia liscia grigiastra. Peso medio delle nocciole, in guscio e sgusciate, abbastanza elevato; forma intermedia tra la rotonda e l'allungata, resa alla sgusciatura intermedia. Staccabilità di perisperma basso; resistenza all'irrancidimento buona; basso contenuto in grassi; contenuto in acidi grassi insaturi elevato

Cultivar di origine locale diffusa soprattutto nella parte sud-orientale della Valle Sturla, in tutta la Val Graveglia e nell'entroterra chiavarese. Veniva apprezzata dall'industria dolciaria. Era commercializzata, insieme alle altre cultivar locali, sotto la denominazione "misto Chiavari".


Tapparona

Cultivar di origine locale coltivata prevalentemente nella parte nord orientale della Valle Sturla (Val Carnella).

Alberi cespugliosi, molto polloniferi e vigorosi; a rapido sviluppo. Chioma espansa, branche patenti; corteccia liscia marrone-grigiastra. Pianta vigorosa e di produzione costante. Peso medio delle nocciole, in guscio e sgusciate, elevato; forma allungata, resa alla sgusciatura buona. Staccabilità di perisperma bassa; resistenza all'irrancidimento, bassissima; intermedio contenuto in grassi; contenuto in acidi grassi insaturi elevato.


Nocciola Savreghetta (Selvatichetta)

Cultivar di sviluppo limitato e di aspetto piuttosto selvatico, con frutti tondeggianti e gustosi. Produttiva; resistente alla siccità. Molto adatta anche come impollinatore


Nocciola Menoia

Cultivar rustica e produttiva, dalla forma rotondeggiante. Guscio di colore piuttosto scuro.

Ha un discreto valore commerciale: veniva apprezzata dall'industria dolciaria ed era commercializzata, insieme alle altre cultivar locali, sotto la denominazione "misto Chiavari".


Nella tabella seguente si riportano le frequenze con cui le 9 varietà di nocciola sono state menzionate dagli intervistati.

Nome varietà Frequenza record

Tapparona

8

Sraighetta

5

Menoia

4

Dall'orto

9

Codina

2

Bocciona

7

Bianchetta

2

Barbona

1

Totale

38


Castagno

Nel Comune di Borzonasca il paesaggio agrario cambia. Al nocciolo si sostituisce il castagno, definito dialettalmente l'erbo, l'albero per eccellenza, l'albero dai cui frutti si ricavava la fain-na neigra, la farina nera, principale ingrediente di molti dei piatti caratteristici della zona.

In valle sono stati ristrutturati a frutto, attraverso risanamento, reinnesto e potatura di riforma, alcuni castagneti, e uno di questi, di proprietà di Luisa e Rita, è sito nella frazione di Caroso, comune di Borzonasca. Ancora in uso presso l'abitazione delle due sorelle è anche l'essiccatoio, in cui le castagne subiscono la prima fase di lavorazione per potersi successivamente trasformare in ottima farina.

Segno della presenza più che centenaria del castagno in questa valle è la localizzazione, in zona S. Rocco di Acero, di un esemplare monumentale, presso il quale, il 21 marzo 2002, si è svolta la prima "festa dell'albero".


Dopo aver subito il processo di essiccazione, le castagne vengono portate al mulino per essere trasformate in farina.

In località Belpiano si erge un mulino ad acqua con una particolarità che lo contraddistingue dagli altri manufatti del suo genere: presenta la ruota che convoglia l'acqua posizionata in senso orizzontale anziché verticale, come avviene invece negli altri mulini della zona.


Con la presente ricerca si sono raccolti 75 record riguardanti il castagno, raggruppati in 15 cultivar.


Nella tabella seguente si riportano le 15 varietà di castagna menzionate dagli intervistati.

Nome varietà Frequenza record

Boiasca (Borinasca)

11

Buneivere

11

Carpenese

6

Gentile (Gentì)

7

Giaiola

1

Maglione (Maggion-na)

5

Marrone del Piemonte

1

Negrisciola

1

Ottaìng

1

Pezzua

3

Pozzeverasca

6

Quarantina

1

Selvatichetta (Sraighetta)

11

Selvatica di "Giaio"

1

Spinosa

2

Torrigìn

4

Verduccio

3

Totale

75


Le castagne venivano utilizzate sia per il consumo diretto (venivano bollite o arrostite), oppure trasformate in farina.

Quelle che, dal punto di vista organolettico, vengo considerate le migliori per il consumo diretto come caldarroste (rostìe) sono la Gentile (Gentì), la Negrisciola, la Puzzeveràsca, la Pezzùa e la Selvatichetta.

Altre invece, pur presentando dimensioni notevoli del frutto, non sono gustose e aromatiche come le prime e vengono di solito trasformate in farina. La loro principale caratteristica è quella di conferire un colore più bianco alla farina. Tra queste citiamo la Boiasca e la Maglione.

La Verduccio, così come la Puzzeverasca, presentano caratteristiche morfologiche che condurrebbero a classificarle come Marroni: infatti vengono descritte con epicarpo a strisce alterne marrone chiaro e marrone scuro, peduncolo apicale allungato e setto centrale, interno al frutto.


Del castagno veniva raccolto anche il fogliame, e non solo per utilizzo zootecnico. Le foglie (le migliori e più belle erano quelle della Selvatichetta) erano infatti utilizzate anche per la cottura dei cibi sotto il testo, adagiate ed in parte sovrapposte sul fondetto (sorta di tagliere largo e rotondo, simile ad una grossa racchetta da ping pong). Luisa ricorda che non veniva considerata una brava massaia colei che finiva anzitempo le foglie di castagne, raccolte di solito prima dell'inverno, utilizzate per la cottura.


Pomi

Altri fruttiferi, non in coltivazione specializzata, sono presenti negli orti per il fabbisogno familiare (autoconsumo).

Per i meli sono state registrate 15 cultivar.

Di seguito si riporta in modo tabulare la frequenza con cui queste varietà sono state menzionate.

Nome varietà Frequenza record

Bianchetta

1

Musona (Mussunn-a, Busunn-a

5

Carla

6

Carla du Cattùn

2

Gave

1

Ghiacciola

3

Maddalena

1

Mantovana

1

Delizia

1

Lunghetta

2

Alla Madonna del Carmine

1

Mussolini

1

Paradiso

1

Resa

1

Renetta

1

Rosa di Spagna

2

Rose

1

Totale

31


Peri

Le cultivar di pera individuate sono 9 (4 menzioni non sono state identificate con un preciso nome) con una frequenza totale di 19 record.

Sotto si riporta in modo tabulare la frequenza con cui queste varietà sono state menzionate.

Nome varietà Frequenza record

America

1

Campana

3

Franca

1

Limone

2

Nissa

1

Pera

4

Pasciàn

1

Ruggine

4

S. Giacomo

1

Zampa di cavallo

1

Totale

19


Vite

La viticoltura locale, legata comunque alla produzione del vino per autoconsumo, seppur con superfici ridottissime, a causa di problemi imputabili in massima parte a fisiopatie, può a tutti gli effetti essere considerata un "sebatoio" di germoplasma.

Dai testimoni sono stati menzionati 9 vitigni.

La tabella riporta le frequenze dei vari vitigni.

Nome varietà Frequenza record

Vermentino

4

Verdecana

5

Scimiscià

2

Rossea

2

Nebbiolo

2

Moscato.

1

Monferrato

1

Francese

2

Dolcetto

5

Bianchetta

1

Bisciona

4

Busona

1

Totale

30


Analisi dei dati bibliografici

Analizzando i dati in bibliografia, riguardanti il Censimento ISTAT 1990, si possono fare alcune considerazioni sullo stato in cui versa l'attività agricola della zona.

Si può infatti registrare:

Si riportano di seguito le tabelle relative alla superficie agricola, alle coltivazioni ed agli allevamenti dei Comuni inclusi nel territorio oggetto della ricerca (Censimento Istat 1990).

Comune

Seminativi

(a)

Coltivaz. Perman.

(b)

Prati perman. e pascoli

(c)

Sub

Totale (a+b+c)

Boschi

Altro

Totale sau

Sup. Tot.

% sau

Borzonasca

52,71

762,94

1608,24

2423,89

2090,23

306,93

4821,05

8004

60,23%

Mezzanego

19,14

391,29

119,99

530,42

1572,23

134,9

2237,55

2886

77,53%

Nota: Le superfici sono espresse in ettari;

S.A.U.= Superficie Agricola Utilizzata


Superfici colturali in ha (Fonte Censimento Istat 1990).

Comune

Cereali

Ortaggi

Foraggere avvicend.

Uva da vino

Olivo

Fruttiferi

Borzonasca

8,5

17,24

0

20,18

35,88

35,8


Mezzanego

2,56

7,95

3,63

58,33

49,52

144,46


Il patrimonio zootecnico, relativo ai capi bovini (razze bruna alpina, pezzata nera) vede la presenza di 246 capi a Borzonasca e 57 capi a Mezzanego negli anni 1996 - 1997, contro i rispettivamente 410 e 249 del 1990.

La consistente diminuzione del numero di capi può essere spiegata in parte con la nota vicenda amministrativa delle cosiddette "quote latte", ed in parte con l'invecchiamento della categoria degli allevatori. Attualmente il latte prodotto è ritirato in prevalenza dalla Cooperativa di S. Colombano Certenoli.


Tabelle relative agli allevamenti Fonti Censimento agricoltura 1990 (Istat) e rilevamenti successivi

ALLEVAMENTI

ZOOTECNIA

1990

Bovini e bufalini n° capi

Ovini

Suini

Caprini

Equini

Avicunicoli

Borzonasca

410

462

120

209

35

2800

Mezzanego

249

126

166

51

0

986

1996 - 1997

Vitelli età inferiore a 6 mesi

Vitelloni età tra

6-24 mesi

Tori età superiore a due anni

Manze età superiore a 24 mesi

Vacche da latte

Mezzanego

27

10

0

2

12

Borzonasca

13

6

1

49

177

2000

Bovini

Ovini

Caprini

Suini

Aziende

Borzonasca

208

103

145

58

69

Mezzanego

3

28

29

0

9



Sui metodi di cottura: alcune considerazioni

Il testo (per il pane)

In Valle Sturla, come nella confinante Val Graveglia, persiste l'uso del testo, o, per essere più precisi, del testo grande (detto da pane): tra i metodi di cottura indicati ricorre 63 volte. Per informazioni specifiche e dettagliate, dal punto di vista archeologico e funzionale, rimandiamo alla bibliografia segnalata in nota2. In questa sede basta sapere che, a differenza del Genovesato, dove per testo si indica la grande teglia di rame usata per cuocere la farinata, qui si tratta di "un manufatto in terracotta a forma di campana ribassata e serve per la cottura del pane mediante preriscaldamento sul focolare. Dagli inizi del secolo è stato sostituito in molti paesi da un equivalente strumento in ghisa [...] Per la cottura del pane si accende un fuoco vivace sul focolare, sotto il testo appeso alla catena e si riscalda a lungo; il colore biancastro assunto dalla terracotta avvisa la massaia che la temperatura raggiunta è sufficiente. La donna allora ritira la brace scopando il suolo del focolare e vi depone il pane lievitato, abbassa il testo a mo'' di coperchio e rincalza lo stesso con la brace [...]" (Mannoni, 1965).

Il testo è ospitato generalmente all'interno dell'essiccatoio per le castagne3, "un piccolo locale che presenta il tradizionale focolare a terra, formato da uno zoccolo di pietre direttamente appoggiate sull'assito del pavimento ma isolato da questo mediante uno strato di cenere [...] [Sopra al focolare c'è] una struttura a grata formata da assicelle di sezione quadrangolare di circa 5-6 centimetri di lato disposte parallelamente con un interstizio di poco più di un centimetro" (Moreno, De Maestri, 1973). "Il pavimento della struttura era in terra battuta: questo non solo per minimizzare i rischi di incendio, come ricordano i testimoni, ma per creare una sorta di superficie a specchio, o meglio isolante, che impedisse al calore di disperdersi e ne riflettesse l'afflusso verso l'alto. Si veniva a creare una specie di scatola chiusa, dove l'aria penetrava dal solo uscio (tenuto probabilmente socchiuso) e da piccole aperture situate nella parte inferiore della costruzione; l'aria calda saliva verso il tramezzato ed essiccava le castagne, mentre il fumo fuoriusciva dal "filtro" costituito dal tetto di scandole [...] L'intero edificio era in sostanza un dispositivo per il fuoco, concepito appositamente per favorire un'essiccazione uniforme dei frutti" (Caprile, 1995), ma, al di fuori del periodo autunnale, riservato all'essiccazione, questo locale era anche adibito a cucina: gli informatori sono concordi nel testimoniare che sotto il testo non si cucina solo il pane, ma torte salate, polpettoni, carni, dolci.


I testelli

Il "testo" ("piccolo"), o testello, testeto, è diffuso nella vicina Val Graveglia, noto in Valle Sturla, ma qui non viene adoperato: i due informatori che asseriscono di cuocere focaccette nei testelli hanno entrambi la madre originaria della Val Graveglia, che li ha portati con sé nella nuova residenza, ma, a parte questi casi, i testimoni confermano di conoscerli ma affermano "qui da noi non li usiamo". Lo stesso Mannoni, d'altronde, scrive che "l'area di diffusione dei testi attuali [qui intende appunto i testi piccoli, da focaccette, ndr] è abbastanza definita: essa si estende dal Chiavarese, con zona di estinzione nella Fontanabuona, alla Magra" (Mannoni, 1965).

Anche la Valle Sturla dunque, pur confinante con la Graveglia e ad essa così affine quanto ad usi e ricette, è già zona di estinzione di questa pratica. Sarebbe interessante, avvalendosi della collaborazione di studiosi come Tiziano Mannoni4, che su questi temi porta avanti le sue indagini ormai da decenni, approfondire le ragioni di questa peculiarità e delimitazione spaziale, nonchè le proprietà fisiche che conferiscono a questi oggetti le loro peculiarità e funzionalità, e li rendono efficaci da secoli: "manufatti a forma di testo, sia pure con diverse varianti, [sono presenti] in castelli ed abitati databili tra l'XI ed il XV secolo [...] Luigi Bernabò Brea aveva già segnalato la presenza di manufatti consimili nel castellaro di Pignone [...] ne conseguirebbe un fatto di continuità inconsapevole di tecniche elementari dalla preistoria fino all'epoca attuale, che merita un approfondimento" (Mannoni, 1965).


BIBLIOGRAFIA

dei 21 testi usati per il confronto


Abbiati S., 1999 -- La büsela. Ricette e tradizioni lungo la Via del Sale o Via Francigena, De Ferrari editore, Genova
Accame F. 1982 -- Mandilli de saea, Valenti editore, Genova
Accame F., Torre S., Pronzati V., 1997 -- Il grande libro della cucina ligure, De Ferrari editore, Genova
Arena R., 1987 -- Borzonasca e la Valle Sturla, E.R.G.A., Genova
Arvo P., Viganego G., 1991 - La tradizione gastronomica italiana. Liguria, Edizioni Sipiel, Milano
Bagnasco R., Boccalatte N., 1995 -- A tavola! Insolite ricette liguri di ieri e di oggi, Sagep, Genova
Burani M., Mattiello L., 1991 -- A tavola in Italia. Liguria, A.P.S. Divisione Territoriale, Modena
Cabona A., Cabona M., 1994 -- Alla scoperta della Val Graveglia, Sagep, Genova
Dolcino E. & M., 1990 -- Le ricette liguri per tutte le occasioni, Nuova Editrice Genovese, Genova
Feslikenian, 1972 -- Cucina e vini della Liguria, Mursia, Milano
Gavotti G., 1974 -- Cucina e vini di Liguria, Sabatelli editore, Savona
Marchese S., 1989 -- La cucina di Lunigiana, F. Muzzio ed., Padova
Marchese S., 1990 -- La cucina ligure di Levante, F. Muzzio ed., Padova
Martini D.G., Ferrer M., 1975 -- Pesto e buridda, Sabatelli editore, Savona
Molinari Pradelli A., 1996 - La cucina ligure, Newton & Comton, Roma
Plomteux H., 1981 -- Cultura contadina in Liguria. La Val Graveglia, Genova, Sagep
Pronzati V., Savio F., 1996 -- E rustie: il castagno e le castagne dal bosco alla cucina, ed. Il Golfo, Genova
Schmucker A., 200 -- Feste e cucina in Liguria, Araba Fenice, Boves
Sola P. (cur), 1993 -- Ricette e vini di Liguria, Sagep, Genova
Sola P., Sentieri M., 1993 -- Album di Liguria, le ricette, Sagep, Genova
Vigliero Lami M., 1998 -- Ricette raccontate. Liguria, idealibri, Rimini



Annotazioni


1
Consultati presso la Biblioteca Berio di Genova, sezione Raccolta Locale.
2
Su testi e testelli:
Mannoni T., 1965 -- Il "testo" e la sua diffusione nella Liguria di Levante, "Bollettino Ligustico", XVII, pp. 49-64
Plomteux, H., 1981 -- Cultura contadina in Liguria. La Val Graveglia, Genova, Sagep
Savio F., Pronzati V., 1996 -- E rustie. Il castagno e le castagne dal bosco alla cucina, ed. Il Golfo -- antichi sapori, Genova
Mannoni T., Fossati S., Gli strumenti della cucina e della mensa in base ai reperti archeologici, "Archeologia Medievale", VIII, pp. 409-419
Scheuermeier P., 1980 -- Il lavoro dei contadini, ed. italiana Longanesi & C., Milano
Coveri L., 1993 -- Sistemi elementari di cottura del cibo in Liguria orientale, "Quaderni dell'Atlante Lessicale Toscano", 7/8, 1989/90, Leo S. Olschki ed., pp. 65-71
Giannichedda E. (cur), 1996 -- Antichi mestieri, Sagep, Genova
Marchese S., 1989 -- La cucina di Lunigiana, F. Muzzio ed., Padova

3
sugli essiccatoi per le castagne (aberghi, seccherecci):
Calissano M., Barabino L., Porta S., 1985 -- Architettura rurale in Valle Stura: il paesaggio agricolo nel Cabreo Spinola di Campofreddo, Sagep, Genova
Frigerio P., Piccione A., 1976 -- Schede sull'architettura rurale dell'Appennino Genovese nel XVIII-XIX secolo, "Archeologia Medievale", III, pp. 447-472
Moreno D., De Maestri S., 1974 -- Casa rurale e cultura materiale nella colonizzazione dell'Appennino genovese tra XVI e XVII secolo, "Atti del Convegno Internazionale I paesaggi rurali europei", Arti Grafiche Città di Castello, Città di Castello, pp. 3-21
Plomteux H., 1977 -- Abergu 'essiccatoio per le castagne' e simili, "Novinostra", 17, pp. 17-23
Scheuermeier P., 1980 -- Il lavoro dei contadini, ed. italiana Longanesi & C., Milano
Caprile M.T., 1995 -- Il fuoco domestico: archeologia e geografia dei sistemi di cottura nella Liguria centrale, tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1994/95.

4
Tiziano Mannoni, docente di Rilievo e Analisi dei monumenti antichi presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Genova.